Cosa ho capito negli ultimi mesi mentre continuo a venir fuori dal bozzolo primordiale: il dolore, dopo tutto, passa. Così come passa ogni sinonimo che lo chiama.
Però prima di dirla questa cosa ai quattro venti, mi sono seduta su una pila di comode disperazioni e ho memorizzato il bianco asettico dei muri giurando che non passa con la stessa solenne, noncurante fretta, di una cadenza gioiosa, svelta. Affamata di sguardi luminosi e parole che strepitano, per esorcizzare con la vita, la morte.
Non passa come certi pomeriggi d’infanzia bloccati, simili a mosche vaghe nella memoria.
Il dolore si trascina, lì dove è diretto, indossando scarpe che trattengono in miglia scoscese, comode e facili.
Pesano quanto tutto il piombo del mondo, in un tentativo umano e maldestro di trovare il centro gravitazionale di ogni cosa. Per prima, l'esistenza.
Quando si avanza muoiono le intenzioni nitide e al loro posto si installa una nebbiosa, immobile quiete.
Questo è il dolore: lentezza, asfalto, piombo.
Un treno molto in ritardo nel mezzo del nulla, dove la speranza diventa maledizione fino a crollare su se stessa per un tempo che non conosce principi mortali.
E poi
un fischio in lontananza.