Chiamo casa l’ombra di una quercia secolare, il legno sulla spiaggia sbiadito dalla salsedine, la solitudine di un mare notturno: riporta parole agrodolci che non voglio sentire.
Casa è dove fa male, diceva una canzone una volta. Non mi è bastata una vita intera per convincermi a parlare delle astratte dispute del cuore.
Chiamo casa la tenerezza con la quale mi parli tu che usi una lingua franca che conobbi anch’io quando venni al mondo. Il primo tocco di mia madre mi aprì la vista sul lungo filo ignoto dei giorni e fu, tuttavia, l’unica cosa che mi rimproverò, quella tenerezza, in nome di un’utopia possente e dissoluta che mi facesse navigare sempre in acque cattive. Imparai, da quell’inverno mite e profumato, la grazia dell’onda contro la roccia, il sollievo dello sporco addosso.
Chiamo casa le tue mani che raccolgono il mio viso come se fosse grano caldo.
Casa è la preghiera che esaudiscono i baci tuoi, fermi in un punto chissà dove sotto il mio occhio destro. Mi tormenta l’incauta idea d’essere immeritevole di bonaccia e respingo come acqua tra i remi te che sei tutt’intorno.